Tu, dalle «eterne idee»

È mattina presto e sono appena scesa per la colazione. Ancora abbastanza insonnolita, quasi non riesco a mettere insieme i pensieri, eppure i versi di una poesia mi affollano già la mente.

Li ricordo quasi a memoria, ma non dai banchi del liceo dove, come generazioni di studenti, ho studiato Leopardi. È solo dopo averli sentiti citare innumerevoli volte da don Giussani a partire dai miei anni universitari, che ho voluto impararli.

Ora si sono risvegliati dopo tanto tempo: ogni mattina, per settimane, nel silenzio della colazione e della mia mente non ancora affollata da preoccupazioni lavorative, iniziano a risuonare precisi e scanditi.

Li ha riportati in vita la rilettura di don Giussani, che aveva per essi una indiscussa preferenza. Complice il fascino che mi ha sempre dato la sua spiegazione di questa poesia insieme al tema della bellezza, stavolta hanno iniziato a riecheggiare con una tale potenza che, tutto ad un tratto, i noti versi hanno destato un interesse nuovo.

Alla sua donna non è tanto il canto a una donna ben precisa, in carne ed ossa, ma il grido di Leopardi alla bellezza e alla felicità. Che non consistevano in una creatura umana, pur bella, ma nella suprema Bellezza.

E la canta, questa Bellezza, con grande desolazione, perché non spera più di poterla vedere in vita («viva mirarti omai / nulla speme m’avanza»): è una bellezza che porterebbe grande conforto ai suoi affanni, ma che sente perduta ancora prima di averla trovata.

A meno che

A meno che non si possa trovarla in un altro modo.

È come se Leopardi pensasse: questa bellezza suprema deve poter esistere, perché io (sì, proprio io!) ne ho così bisogno.

E se questa ipotesi fosse vera?

Vincent Van Gogh, Notte stellata sul Rodano (1888), Parigi, Musée d’Orsay

Leopardi coglie così la verità dell’uomo: creatura effimera e mortale ma, nello stesso tempo, grande nel suo desiderio, l’uomo è fatto per una Bellezza gigante, infinita ed eterna.


Tutte le volte che giungo all’ultima strofa di questa poesia mi si incrina un po’ la voce, anche se me la sto ripetendo a mente nel silenzio e nel buio del mattino, davanti alla mia tazza di tè fumante.

È la strofa più potente e mi conquista per la sua verità.

Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e piú vaga del sol prossima stella
t’irraggia, e piú benigno etere spiri;
di qua, dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.

Alla sua donna, G. Leopardi

Allora se tu, cara Bellezza, esisti davvero e sei una delle idee perfette, eterne, che non si è mai degnata di prendere forma mortale e carnale vivendo gli affanni di questa nostra vita destinata alla morte; se forse ti aggiri in qualche altra terra, o se un altro mondo ti accoglie e ti illumina un altro sole, e respiri un’aria più benevola e felice; se ci sei, insomma, da questo luogo dove la vita è infelice e breve, ricevi l’inno di questo tuo ignoto amante.

È il culmine dello struggimento perché questa bellezza da qualche parte forse esiste davvero; e non si cura di me!

Amati, non ignoti!

Invece, una bellezza c’è, anzi: una Bellezza diventata carne e venuta addirittura a «provar gli affanni di funerea vita».

Leopardi in fondo si strugge nella ricerca di qualcosa che è già accaduto prima di lui.
Per Qualcuno che è venuto, non solo a sperimentare insieme a noi, ma a vincere gli affanni della vita.

Una Bellezza a cui non siamo per nulla sconosciuti, che si è fatta Carne proprio per amore di questi poveracci «ignoti amanti» che siamo noi, che spesso non la riconosciamo.

Sfogliando lentamente un libro di poesie,
T. Longaretti, Natale ’61

Questa Bellezza è un Bambino che ha voluto smettere di essere per gli uomini solo un’eterna idea e per questo è venuto a stare eternamente con noi. 

Buon Santo Natale a tutti!

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