LE PAROLE DELLE NOSTRE PREGHIERE: PERCHÉ CAMBIARLE?

La liturgia nei suoi gesti e nelle sue parole sembra senza tempo e immodificabile, forse perché si riferisce a misteri trascendenti, forse perché quei gesti e quelle parole diventano consueti per la loro quotidianità e per la loro intensità.  

Ma l’evoluzione della lingua e il progresso degli studi biblici suggeriscono e richiedono talora degli aggiornamenti per rendere meno inadeguata la corrispondenza tra le nostre parole e il mistero che esse cercano di rappresentare. E proprio poco più di due anni fa sono stati introdotti alcuni cambiamenti che hanno forse un poco turbato la nostra partecipazione abitudinaria.

Ci sembra utile proporre un breve estratto delle spiegazioni offerte in quell’occasione da monsignor Claudio Magnoli, segretario della Congregazione del Rito ambrosiano, riportate dal sito della diocesi di Milano. Riportiamo il commento alle modifiche più significative.

Il canto (recitazione) del Gloria: cambia l’espressione «uomini di buona volontà» con «uomini, amati dal Signore».

Il motivo del cambiamento è squisitamente biblico. Il canto degli angeli nel testo greco [Lc 2, 14] usa l’espressione «agli uomini della (sua) benevolenza» (en ántropois eudokías), che l’ultima versione ufficiale (Bibbia CEI 2008), traduce: «Agli uomini che egli ama». Tenendo conto che «l’espressione “amati dal Signore” … per numero di sillabe e accenti tonici può essere sostituita al testo finora in uso senza creare problemi di cantabilità nelle melodie già esistenti» (Guido Boselli, Le nozze dell’Agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2020, p. 52) si è deciso di adottare quest’ultima espressione (si provi, ad es. con il Gloria del maestro Luigi Picchi, in Cantemus Domino, n° 25).

La preghiera del Signore (Padre nostro) rende di uso liturgico, nella parte finale, la nuova versione della Bibbia CEI 2008: «… come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male».

Ciò ha comportato anche l’adattamento al nuovo testo della melodia ufficiale riportata sul Messale (cfr. la pubblicazione sul sito della diocesi). Perché andare a toccare la versione italiana in uso nella liturgia della Messa dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso e, ancor più, retaggio dell’educazione catechistica di intere generazioni? La scelta dei vescovi – scrive Guido Boselli in Le nozze dell’Agnello – «non risponde alla necessità di una fedeltà materiale al testo greco [Mt 6, 13], ma a una scelta di carattere pastorale». Il verbo usato da Matteo (eisféro), significa «portare verso» o «portare dentro» e quindi anche «indurre» in senso etimologico. Il problema nasce dal fatto che «al nostro orecchio moderno l’espressione “indurre in tentazione” porta a pensare che il Padre … spinga, e in qualche modo provochi alla tentazione, consegnando un’immagine di Dio non pienamente evangelica» (Boselli, p. 54). Ecco allora la ricerca di moduli espressivi diversi da quello in uso come, ad esempio, «e non metterci alla prova», «e non lasciarci entrare in tentazione» (Messale francese) «e non lasciarci cadere in tentazione» (Messale spagnolo). La scelta italiana ha preferito «e non abbandonarci alla tentazione», che esprime allo stesso tempo 1) la richiesta di «essere preservato dalla tentazione» e 2) di «non essere abbandonato alla forza della tentazione» (cfr. Boselli, pp. 54-55). Va infine aggiunto che, per fedeltà al greco (ós kaí) e al latino (sicut et) anche l’italiano aggiunge un «anche» («come anche noi»). È la scelta migliore? Il tempo ce lo dirà.

L’invito alla comunione, che prevede la risposta dei fedeli «O Signore, non sono degno…», è riformulato come segue: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello».

La nuova formulazione riallinea l’italiano al latino dell’editio typica del Messale Romano («Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccáta mundi. Beáti qui ad cenam Agni vocáti sunt»), sempre confermata dal 1970 a oggi. In tal modo la dichiarazione circa l’identità del pane consacrato torna in primo piano, mentre la beatitudine rivolta a coloro che sono invitati alla comunione va a chiudere l’invito stesso. Se il rovesciamento delle due parti frenerà per qualche tempo l’intervento tempestivo dei fedeli, che sarà riattivato grazie al supporto di una Voce Guida, un commento specifico merita la nuova formulazione della beatitudine («Beati gli invitati alla cena dell’Agnello») perché viene riconsegnata alla liturgia «la citazione diretta, sebbene incompleta, dell’Apocalisse di Giovanni [cfr. Ap 19, 9] introdotta dalla riforma dell’ordo missæ del Messale di Paolo VI» (Boselli, p. 59). La dimensione liturgico-sacramentale (il banchetto eucaristico) si apre così alla «profezia del banchetto escatologico, la tavola del regno promessa da Cristo: “Io preparo per voi un regno … perché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno” [Lc 22, 2])» (Boselli, p. 60). Sarebbe stato auspicabile che la citazione biblica di Ap 19, 9 fosse completa («Beati gli invitati alla cena di nozze dell’Agnello»), come nel Messale Romano in lingua francese, ma il compromesso italiano rappresenta già un primo significativo passo in avanti.

Ci auguriamo che questi commenti aiutino a comprendere, come dice monsignor Magnoli, «il significato [di questi cambiamenti, ndr] non in modo contrappositivo (finora abbiamo pregato sbagliato), ma chiarificatore e facilitatore (quello che abbiamo detto per molto tempo è più facilmente comprensibile nel suo giusto significato)».

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