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Il segreto dell’arte sacra [#02] – I murales, il Vetro e il sussurro
Già da qualche tempo avevo in progetto di rincontrare il nostro amico Sami (Tsamani Tovar Niño) dopo la prima stimolante intervista sull’arte sacra realizzata con lui lo scorso maggio (la potete trovare qui).
In realtà, finora si è trattato di una collaborazione esclusivamente virtuale: non abbiamo mai potuto trovarci di persona, principalmente a causa della pandemia. Oggi l’ho ‘raggiunto’ – sempre da remoto – e ho per lui alcune domande che forse anche voi vi sarete fatti: come è approdato all’arte sacra? che tecniche usa? cosa vuole esprimere?
E infine… cosa accade quando si sbaglia?
Buongiorno Sami e bentornato sul nostro blog.
Nel primo incontro ci avevi incuriosito dandoci delle nozioni iniziali e alcune notizie sull’arte sacra nella storia. Ora siamo tornati per conoscerti meglio e prima di tutto siamo curiosi di sapere come hai scoperto l’arte sacra.
Buongiorno a tutti i lettori del Filo.
Ti rispondo con l’immagine del mio primo quadro a colori ad olio, un San Michele che ho dipinto a sette anni.

Questa passione per l’arte sacra è un dono che mi ha lasciato mio padre. Ho recepito molto dalla sua produzione pittorica, sono cresciuto tra ritratti e murales di arte sacra.
Quando ho dipinto quel San Michele mio padre stava eseguendo una serie di murales intitolati ‘De Trinitate‘: una ricerca di arte sacra sulla Trinità e sulla leggenda dell’incontro di Sant’Agostino con Gesù Bambino.
Ora vi voglio mostrare tre delle sue opere.



Questo progetto, tra l’altro, è stato realizzato da mio padre, ma come famiglia, cioè insieme a noi figli.

Questa mi sembra una cosa molto bella, forse anche un po’ insolita. E come è nata in te la passione per questo specifico tipo di arte?
Credo che un’influenza così forte come quella di mio padre sia stata decisiva, tuttavia arriva un momento nella nostra vita in cui assumiamo queste influenze come nostre. L’esempio più comune che possiamo vedere di questo è la fede.
Comunque, da quel San Michele ad oggi sono passati più di 20 anni e nel frattempo la mia passione per l’arte sacra si era spenta.
E’ stato il mio viaggio in Italia, l’inizio della mia formazione artistica a Brera, che l’ha riaccesa. Ad un certo punto della mia formazione ho capito che per me non esisteva arte senza arte sacra, è stata una riscoperta! La mia passione per essa non solo mi permetteva di creare un legame ancora più forte con la mia spiritualità (l’invisibile), ma mi avvicinava anche all’anima dell’arte.
Se guardiamo alla storia dell’arte capiamo che l’arte è sempre stata una delle poche attività che ha permesso all’uomo di esplorare e vivere la spiritualità al di là della religione e della filosofia, come affermava Hegel.
Dare immagine (cioè forma) all’invisibile, insomma, è stato il mio ‘motore’ e ciò è stato possibile grazie a all’arte.
Quindi qual è per te l’aspetto interessante dell’arte sacra?
Dell’arte mi interessa la capacità di comunicare e di far parlare la nostra interiorità; dell’arte sacra mi interessa la possibilità di manifestare una certa spiritualità.
Nella mia produzione mi concentro nell’evocare quella spiritualità che l’uomo contemporaneo ha perso così tanto e cerco di aprire un dialogo con altre spiritualità a partire dal mio linguaggio, dai miei simboli.
Ma se è vero che abbiamo in gran parte perso questa spiritualità, è ancora possibile e cosa vuol dire produrre questo genere di arte oggi?
Produrre arte sacra oggi vuol dire rompere due pregiudizi, il primo è quello del nostro immaginario di arte sacra, cioè dell’arte sacra concepita come qualcosa di legato a un rito, a uno spazio concreto. Questo significa iniziare a pensare che l’arte sacra possa andare al di fuori di una chiesa, che la vera spiritualità trascende, è ovunque.

Mostra ‘Il Sacro come antidoto al sonno dello spirito’ a cura di Sofia Baldi.
Accademia di Brera. 2018
Il secondo pregiudizio è quello per in cui si ritiene che l’arte sacra non ha più niente da offrirci; che parlare di spiritualità o di credenze significa immediatamente essere radicale o fanatico.
Non deve essere facile tentare di rompere dei pregiudizi. Hai trovato qualche difficoltà nel tuo lavoro?
Sì, ad esempio quando portavo i miei lavori a lezione e incontravo il rifiuto dei miei compagni, oppure quando li presentavo da esporre in spazi consacrati. Credo che il motivo sia che la mia produzione è molto radicale per gli spazi tradizionali di arte contemporanea e molto sovversiva agli occhi del cristianesimo conservatore.

Uno stile personale e una concezione, quindi, un po’ diversi da quelli consueti. Cosa ritieni ci sia di nuovo nella tua arte?
La mia ricerca è quella di aprire e offrire nuove letture a tutta l’eredità di cui sento il bisogno di prendermi cura. La mia produzione è una proposta di nuovi linguaggi, linguaggi contemporanei, che indagano nella mia esperienza spirituale e religiosa. In altre parole, è la mia appropriazione di ciò che considero la mia eredità storica, culturale e spirituale.
Che tecniche utilizzi per rappresentare questa eredità? Quali sono questi nuovi linguaggi?
Utilizzo tecniche miste e modalità diverse che scelgo in base a ciò che mi permette di raggiungere meglio la mia intenzione, ovvero la pittura, la scultura, l’installazione ecc.
Io provengo dalla pittura, ma la mia ricerca si è concentrata più nella costruzione dell’immagine che nell’immagine stessa, cioè nell’aspetto materico dell’immagine. L’anima del mio lavoro è il materiale. È nel materiale che gran parte del mio linguaggio trova significato. Ho un rapporto molto intimo con i materiali che utilizzo, tra cui le candele, l’incenso e i profumi.
Puoi farci un esempio dei tuoi lavori?
Una delle tecniche che principalmente utilizzo è il trasferimento di immagini sulla paraffina. Tecnica che – tra l’altro – è il risultato di un errore.
Interessante. E ci puoi raccontare anche come è successo?
Avevo una quantità di candele già consumate e con queste ho iniziato una scultura di Santa Rita, appoggiandola su una immagine che non mi interessava se si rovinava o meno. È stato un errore dovuto alla distrazione: la scultura era fresca e non avrei dovuto appoggiarla lì. Ho continuato a lavorare, ma quando si è asciugata mi sono accorto che alcuni dettagli dell’immagine si erano trasferiti sulla scultura.
Proprio partendo da questo errore sono riuscito a creare e sviluppare questa tecnica.
Quindi si può imparare anche dagli errori…
Non solo si impara dagli errori ma questi sono fondamentali!
Però l’errore di per sé non basta; è il modo in cui viene affrontato e in che maniera può essere sfruttato che fanno la differenza. Nel mio caso questo errore è diventato proprio una mia tecnica.

Insomma, diciamo pure è stato un felice imprevisto, e tu hai colto l’occasione. Cosa vuol dire che l’artista deve cogliere l’attimo?
Anzitutto secondo me, la casualità arriva dove l’artista non riesce. Per me è fondamentale la casualità, è un grande maestro, e questo è stato un insegnamento che ho ricevuto mentre studiavo Duchamp e il suo ‘Grande Vetro’.
Un giorno, mentre questa opera veniva trasportata verso l’abitazione della collezionista che l’aveva acquistata dopo l’esposizione, le due lastre di vetro di cui è composta si ruppero accidentalmente. Questo evento però non diede dispiacere a Duchamp. Anzi, lui capì che proprio questo fatto ripristinava la natura stessa della sua opera: infatti poi ha affermato che questo era l’inevitabile intervento del ‘caso’ sulla sua opera.
E si creava, quindi, una evoluzione dell’opera in un senso che lui non aveva previsto.

Vetro, vernice, filo di piombo, colori a olio, argento, polvere, acciaio, sabbia, fogli di alluminio
Filadelfia, Philadelphia Museum of Art (*)
Questa ultima considerazione mi invita ad un approfondimento.
Non si tratta tanto di saper sfruttare opportunamente un errore, come nel caso di Sami con la paraffina, ma di cogliere dove l’imprevisto ci vuole portare.
Questo mi pare interessante: che Duchamp intuisca che un intervento esterno dà completezza alla sua arte, anzi ‘ripristina la natura stessa della sua opera‘.
E qual è la natura di un’opera?
E’ stata ideata in un certo modo, ma si è reso necessario un evento imprevisto, una mano diversa da quella dell’artista, per aggiungere questa prospettiva nuova: la natura dell’opera, allora, è che non è sua (dell’artista); o meglio, è sua perché è ‘ricevuta’.
Ecco ciò che io e Sami infine ci sorprendiamo a condividere:
La capacità artistica è un dono. L’artista porta a termine la sua idea, ma poi – sul più bello – accade qualcosa di imprevedibile che gli sussurra all’orecchio: «Ehi, guarda che non sei tu l’Artista…»
Sono stupita della piega che ha preso questo dialogo con Sami.
Lo ringraziamo davvero per il tempo che ci ha dedicato e per le riflessioni a cui ci ha aperto. Ci auguriamo anche una continuazione di questo lavoro… la prossima volta, possibilmente, dal vivo!
(*) Nella fotografia: Duchamp seduto dietro al Grande Vetro (dettaglio della parte inferiore dell’opera)

Baby boomer, laureata in Lingue, lavora nell’ambito della gestione Risorse Umane. Amante della lettura ma soprattutto appassionata di musica: ha esperienze di canto corale e di accompagnamento strumentistico.
Ha fatto parte di vari gruppi di volontariato (attualmente presso la Casa Circondariale San Vittore), preferibilmente mettendo al servizio le proprie conoscenze musicali.
Ultimamente sta scoprendo il gusto per l’arte; e per la scrittura…