Cosa abbiamo visto sul nostro cammino [# 3] Il mio canto… libero

Ritorniamo a San Vittore dopo più di due anni di pausa per il Covid.

Quasi non vedevamo l’ora e, dopo un paio di precedenti tentativi falliti, finalmente siamo qui: io, Paola, Giuseppe; e Alhambra, la mia chitarra.

Entro nel vasto atrio del carcere e mi registro col badge che ho tenuto a lungo pinzato al manico del fodero della chitarra, sempre lì a ricordarmi il grande desiderio che avevo di varcare ancora una volta la soglia di questo luogo.

Le procedure di entrata stranamente stavolta mi sembrano più veloci: deposito tutto nell’armadietto, un passaggio attraverso il metaldetector come in aeroporto e via.
Munita solo di strumento musicale, libretto dei canti, carta e penna.

La consueta breve tappa alla cappellania dove ci attende il don, e poi su per quelle scale ripide fino all’ultimo piano.

Un gruppetto di persone ci aspetta per la messa domenicale. Sono i detenuti del sesto raggio maschile, i cosiddetti ‘protetti’. Non potendo uscire nemmeno dal proprio corridoio assistono ad una celebrazione riservata solo a loro.

La popolazione in due anni è quasi totalmente cambiata. Qui non si fermano mai per molto tempo, tranne rare eccezioni. Dopo la sentenza escono o vengono trasferiti altrove e da una volta all’altra non se ne sa più nulla.

Ma eccoli. Nuovi volti, stesso dolore, stessa solitudine. E noi per loro, forse, siamo una ventata di fresco da fuori.

Mi sistemo come al solito a fianco del tavolone un po’ grezzo che fa da altare, di fronte a un quadro di Maria che scioglie i nodi ispirato all’originale.

Dipinto in anni recenti da una artista che ha voluto donarlo ai detenuti, fu benedetto da papa Francesco in visita nel 2017.
Quando la pittrice ce lo spiegò qualche mese dopo questo evento, ci fece notare che nel suo dipinto la Madonna aleggia sulla città di Milano al cui centro, sotto i Suoi piedi, sta proprio San Vittore. Attorno a Lei gli angioletti appaiono un po’ corrucciati, a differenza che nei classici dipinti. «Hanno le facce preoccupate dei vostri figli», rispose la pittrice a chi domandava perché non sorridessero.

Il dipinto originale Maria che scioglie i nodi di Georg Melchior Schmidtner (XVII sec.); chiesa di San Pietro, Augusta (Augsburg), Germania

Per i canti della messa ci adattiamo alla situazione eseguendo quelli che loro conoscono e preferiscono. E prima del Salve Regina conclusivo ascoltiamo l’Ave Maria di Gounod in una versione molto ‘napoletana’ alla Mario Merola; forse sarà poco ortodossa… ma lascia tutti in silenzio davanti al dipinto.

È Francesco che ha eseguito il canto ed è con lui che dopo la messa facciamo il primo toccante incontro. Se tutto va come previsto a breve avrà il braccialetto elettronico e tornerà a casa. Tutta la sua gioia perché la giustizia ha fatto il suo corso la condensa per noi in dieci minuti; ma condensa anche il suo dolore, le difficoltà che ha passato anche prima della detenzione, le violenze; la sua ferita – come la ferita di tutti qui – è un abisso incredibile.

Mentre gli parlo mi viene da prendergli la mano, ma la mia stretta che intendeva essere solo un saluto veloce, al suo racconto si trasforma. Mi fermo. Trattengo la sua mano nelle mie e sto lì ad ascoltare. Mentre Paola pone altre domande, io non riesco a staccare gli occhi da lui.

È giovanissimo, ha solo l’età dei miei nipoti, potrebbe essere un mio disgraziato figlio.
In quel momento mi accade qualcosa: una commozione.

Ci dice che tra due settimane sarà il suo compleanno. Vorrebbe lasciarci il telefono della mamma per essere chiamato e ricevere gli auguri da noi, ma so che non potremmo farlo. Per quanto sembri disumano, tenere questi contatti è inopportuno e sconsigliato.

Così l’incontro termina con il nostro lungo abbraccio. Non lo rivedrò più, con quel sorriso felice e triste insieme, ma mi ha lasciato dentro un solco… una passione per l’uomo; è tutto qui, anche se io non ho fatto nulla per lui tranne accompagnarlo nel suo canto doloroso.

Poi si fanno avanti Salvatore, Marino, George, Giacomo… altre storie e discorsi semplici, alcuni molto amari.

«Io sono nato nel Duemila», ci racconta un altro giovanissimo che, appena giunto in carcere, ha iniziato accanitamente a imparare l’italiano. Anche se amareggiato, guarda al futuro, ha voglia di ricominciare a studiare.
Un altro invece vorrebbe tornare a recitare «perché sono stato un attore prima, sapete?». Mentre il chitarrista equadoriano – una lunga esperienza di concerti per strada – ora sogna di organizzare lezioni di musica e canto per i suoi compagni di detenzione.  

Carcere dell’Ucciardone, Palermo (foto di Giuseppe)

Ascolto i loro pensieri inframmezzati da immagini familiari e del loro passato, pensando che il novanta percento di quel che ti dicono fa male, non è giusto. Forse non è neanche tutto vero.
Perché il reato qui non si dice mai e anche quando qualcuno ti accenna qualcosa di molto vago su di sé, chissà se sarà la verità!

I protetti poi sono una razza speciale, i loro sono reati di cui non si parla proprio. Te li puoi solo lontanamente immaginare e già il pensarlo mette angoscia.

Mentre conversiamo, perciò, devo continuamente riprendermi e correggermi. Soltanto per una commozione, per un bene che ho sperimentato nei miei confronti, posso guardarli onestamente, credendo a quel che mi dicono. E il dolore è la cosa più credibile, qui.
Credo a quel dolore e al loro essere uomini. Uomini straziati.

Uno di loro, magro, serissimo e scuro in volto l’avevamo notato bisbigliare le letture stampate sul foglietto della messa. Viene a conoscerci dopo la celebrazione: anche lui sta imparando l’italiano, per questo rilegge più volte tra sé il foglietto, per esercitarsi.
Ma soprattutto ci ringrazia commosso perché i canti che abbiamo eseguito avevano dentro un calore… e lui si è sentito improvvisamente a casa.

Davvero non abbiamo fatto quasi nulla, tranne qualche canzone e un po’ di compagnia, ma almeno lui e noi oggi, con il nostro canto, siamo stati veramente liberi.


Al momento di chiudere questo articolo siamo reduci da una bellissima e particolarmente gioiosa mattinata di prove, con esecuzione finale de La Virgen de Guadalupe a due voci, due chitarre e maracas, che ha coinvolto anche il cappellano!

3 Commenti

  1. Grazie della tua testimonianza molto toccante anche solo attraverso le paorole scritte. E’ coraggioso saper andare oltre il reato e vedere l’uomo : distimguere la colpa dal colpevole. una grande lezione!

  2. Grazie, Francesca.
    Don Andrea, prima del periodo Covid, organizzava sempre l animazione della messa a S.Vittore una volta all’anno. Esperienza arricchente! Pensi che potremmo far ripartire questa cosa da noi in parrocchia?

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