Appartenere alla primavera

All’inizio, quando Teresa me lo consiglia per mia mamma, sempre alla ricerca di qualcosa da leggere, La casa da tè alla luna d’agosto mi dà solo l’idea di un libro con un titolo davvero buffo. È stata una sua lettura giovanile di cui racconta a grandi linee la trama e che avrebbe piacere di ritrovare. 

Un po’ incerta e un po’ incuriosita lo cerco su Internet e finisco per comprare un buon usato che, con le sue pagine leggermente ingiallite ma ben tenute, ha quel sapore d’altri tempi che ho percepito nelle parole di Teresa. 

Alla mamma il racconto piace e perciò, incoraggiata, mi lancio anche io nella lettura. 

La storia è ambientata a Okinawa – Giappone – nel secondo dopoguerra, dove il colonnello americano Purdy ha come compito di controllare e governare gli otto villaggi che si trovano sull’isola. Ha anche un ambizioso progetto: costruire scuole, civilizzare e – in poche parole – ‘americanizzare’ la popolazione. E conta sulla collaborazione degli stessi indigeni per realizzarlo.

Ma in uno di questi villaggi le cose non vanno per il verso giusto. Gli abitanti, pur gentili e ossequiosi, sono particolarmente apatici e si rifiutano di collaborare anche alle occupazioni essenziali alla loro stessa sopravvivenza.  

Così, giorno dopo giorno, una quantità di problemi sempre più intricati assilla il capitano Fisby, che di questo villaggio è il responsabile. Che accadrà quando si scoprirà la sua incapacità nel governarlo e nel portare a termine i piani del colonnello?  

C’è però un preciso momento della giornata legato alla cultura di questa gente che tutti apprezzano e che va rispettato: l’ora del tè. E il tè è una bevanda che non si può gustare dove capiti; per farlo nel modo adeguato è necessario avere proprio una sala da tè.   

È appunto per una strana serie di eventi che qualcosa inizia a destare l’interesse di quelle persone svogliate e demotivate. 

Da qui in poi lascio a voi il piacere della scoperta, ma non posso non raccontarvi ciò che più mi ha colpito di questo libro.  

L’incanto dell’incontro

Per prima cosa, la prevalenza della bellezza. Ad un certo punto della lettura mi accorgo che il libro ne è intriso. Quella riservata al tè non è una pausa qualunque per un giapponese: è un vero rito e deve essere vissuto come tale, in armonia, bellezza e silenzio. La bellezza non è fine a sé stessa: la sala da tè è anche un luogo di meditazione e pace, perciò deve essere un ambiente esteticamente bello, immerso nella natura e pieno di richiami. Nel libro la descrizione della costruzione di questo luogo è un crescendo di particolari, di piccoli ma importanti dettagli. Bellezza, armonia e pace qui vanno di pari passo.  
Da questo punto di vista in questo libro c’è veramente un mondo incantato.  


Insieme all’indolenza iniziale, gli eventi iniziano d’improvviso a incalzare attraverso i capitoli. Malgrado la buona volontà del capitano Fisby, problemi sempre nuovi generano complicazioni a catena.

Ma il capitano si ritrova in qualche modo conquistato. Da cosa?

Il secondo particolare che mi colpisce è la sua stima per questo popolo.

Negli altri sette villaggi vigono ordine perfetto e osservanza delle regole, l’imposizione di un progetto, il ‘sappiamo-noi-cosa-sia-meglio-fare’. Fisby invece si ritrova dalla parte di questa gente, a suo modo inizia a comprenderla. All’inizio forse con difficoltà e mille fraintendimenti, ma poi man mano si addentra in quella strana cultura, così diversa dalla sua, che però ha il suo fascino.  

Mi colpisce soprattutto una pagina nella quale il capitano, pensando a questo «piccolo popolo su una piccola isola», impotente contro gli invasori che potrebbero assalirlo, si rende conto in un istante e con dispiacere di essere proprio lui l’invasore! E traspare in quel lampo di coscienza un nuovo profondo senso di dolore e amarezza.  


Infine, il terzo aspetto è la scoperta dell’incontro con l’altro. L’altro popolo non è una entità nemica, prima da vincere e poi da controllare e piegare alle proprie idee, ma una comunità di anime vive, con i loro interessi, i loro riti, la loro cultura. Il loro senso della bellezza. E, da qui, nasce nel capitano la scoperta del suo desiderio di essere con l’altro.  

Bene. Quando in queste pagine questi tre elementi, la bellezza, la stima e il desiderio dell’incontro si uniscono… accade l’incredibile.  

La luna e la felicità

Ben presto, com’è prevedibile, il colonnello Purdy si insospettisce. Cosa sta succedendo in questo villaggio dal quale non gli giunge più alcun resoconto e dove i suoi progetti paiono arenati? Con una scusa qualsiasi prima manderà il dottor McLean, un suo uomo di fiducia, a controllare e infine, non soddisfatto, vi si recherà di persona.  

Vi confesso che a me, spettatrice di quello che dopotutto è soltanto un racconto, l’arrivo imminente del severo colonnello fa temere il peggio.

Saprà comprendere la novità? Si lascerà anche lui conquistare dalla bellezza?
O nel suo animo vinceranno ancora l’orgoglio e l’ostinazione?  

La sala da tè è un libro molto umano e, allo stesso tempo, particolarmente divertente e ironico.

In certi passaggi suona un po’ assurdo per noi che non conosciamo la cultura giapponese, ma ci conquistano il fascino e il vortice di eventi nei quali Fisby cerca di destreggiarsi e di valorizzare veramente tutto e tutti.  

La bellezza protagonista di questo racconto non è per nulla una bellezza statica: smuove il villaggio scatenando fantasia e genialità insospettate.  

Ma la luna d’agosto… cosa c’entra? Lo capirete verso la fine quando, a un capitano Fisby commosso, Primo Fiore – che avrete conosciuto fin dall’inizio del libro – confiderà il suo desiderio di «appartenere alla primavera», al tempo, cioè, in cui il mondo rinasce. In una parola: gli confiderà il grande desiderio di felicità per sé. 

E non è, questo, anche il grande desiderio di tutti noi?  

Buona lettura!
 


Vern Sneider, La casa da tè alla luna d’agosto (titolo originale: The Teahouse of the August Moon), Aldo Martello Editore Milano, 1957.

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